sabato 16 novembre 2013

INTREPIDO

Intrepido Si tratta di un giornale settimanale di avventure, illustrato con racconti a puntate, la cui pubblicazione inizia dal febbraio 1935. Siamo in pieno periodo fascista e il Regime controlla che non appaia nella stampa alcun dissenso verso il governo per cui gli editori in generale devono attenersi a regole precise quali l’esaltazione della Patria e l’eroismo degli Italiani . Negli stessi anni appaiono in Italia altri giornali con contenuti analoghi inserendo storie acquistate all’estero e tradotte in italiano. L’Intrepido salvo rare eccezioni pubblica principalmente racconti scritti da autori italiani e disegnati ugualmente da illustratori del nostro Paese. Per i primi tre anni i disegni sono quasi tutti di Giuseppe Cappadonia su testi di Treddi che è lo pseudonimo di Domenico Del Duca , uno dei tre fratelli editori del giornale che incontra subito un discreto successo. Dal numero 15 del 1938 inizia la storia del Principe Azzurro con disegni di Antonino Salemme e la tiratura aumenta in particolare per il successo presso le giovani lettrici,poi dal numero 1 del 1940 è la volta di Cuore Garibaldino con disegni di Ferdinando Vichi altro buon successo. L’Intrepido è sempre stato caratterizzato nelle sue vicende dal taglio avventuroso con risvolti decisamente romantici: grandi storie d’amore e sentimenti edificanti di figli verso i genitori e altruistici slanci di amicizia. Gli anni migliori sono quelli tra il 1938 e il 1941, poi verso la fine di questo ultimo anno comincia la crisi anche a causa della guerra ormai dilagante. Salemme cessa la collaborazione perché chiamato a combattere in Africa dove perde la vita nel luglio 1942 e il giornale gli dedica un commovente saluto a firma della direttrice Wanda Bontà. Altri fattori negativi sono la riduzione delle pagine dapprima da 16 a 12 e poi a 8, inoltre il Ministero della Cultura Popolare impone la cessazione della grafica a nuvolette (come si chiamavano allora i fumetti) perché di origine degli Stati Uniti d’America con cui eravamo in conflitto, e impone le italianissime didascalie sotto ogni disegno. Infine nell’autunno 1943 con l’Italia divisa in due, il giornale cessa le pubblicazioni. Finita finalmente la terribile guerra l’Intrepido riappare nelle edicole nel 1945 in un’Italia affamata di vicende positive e edificanti. Per i primi anni del dopoguerra i lettori si accontentano di un giornale a 8 pagine con storie impersonate dai tradizionali personaggi, sia pure aggiornati, di Cuore Garibaldino Principe Azzurro,Freccia d’Argento Tenente dei Dragoni Capitan Sparviero poi dal 1949 vengono inseriti fotoromanzi e storie disegnate nello stile di Grand Hotel la nuova rivista dello stesso Editore che sta battendo ogni record di tiratura nel settore. Dal 1951 aumentano le pagine anche a colori e inizia con grande successo la storia di Bufalo Bill disegnata dal validissimo Carlo Cossio. Altri e nuovi personaggi vengono a rinverdire le pagine dell’Intrepido. Verso la fine del 1951 le esigenze editoriali impongono la riduzione del formato da tabloid a libretto e così resterà sino all’estinzione del giornale nel 1996. Nel 1980 era deceduto Domenico Del Duca, Treddi per i lettori, fondatore e direttore dell’Intrepido e realizzatore dei grandi successi dell’Editoriale poi Casa Editrice Universo. Un omaggio a questo Maestro della letteratura popolare dalla eccezionale abilità sia dal punto di vista delle scelte editoriali che per la notevole bravura quale autore di testi di Personaggi indimenticabili. Livio Orlandini

mercoledì 21 dicembre 2011

Esecuzione sommaria

Rai Storia trasmette ogni giorno programmi molto interessanti sugli avvenimenti che riguardano il passato del nostro Paese, e anche altre reti ci mostrano filmati che spaziano su vicende dell’antichità sino a fatti più recenti. Particolare attenzione è rivolta allo svolgersi della parabola del partito fascista poi della Seconda guerra mondiale e al suo drammatico epilogo. Sovente abbiamo rivisto le immagini di Piazzale Loreto con la lugubre esposizione dei cadaveri di Mussolini, della sua amante, e dei gerarchi che erano stati fucilati a Dongo. Non abbiamo la pretesa di aver visto tutto però in generale quando si tratta di rievocare questa pagina di storia si trascura di parlare di Achille Starace e del trattamento che gli fu riservato il 29 aprile 1945. Si tratta di una pagina della storia italiana che potrebbe stare alla pari con le “stragi di settembre del 1792 a Parigi” dove il popolo durante la Rivoluzione Francese diede sfogo ai suoi istinti più inumani. Starace era stato Segretario del Partito Nazionale Fascista verso la fine degli anni ’30 poi era stato accantonato e nel periodo della guerra e della Repubblica di Salò non aveva ricoperto alcuna carica politica, quindi non era responsabile di stragi nazi-fasciste o fatti del genere. A suo tempo era stato uno dei più zelanti esecutori delle parole d’ordine del duce: “Abolite il Lei e adottate il Voi” “Abolite la stretta di mano e adottate il saluto fascista col braccio destro alzato e la mano tesa in alto” e altre amenità del genere, queste erano le sue massime colpe. Sembra che vivesse anche in ristrettezze economiche il che dimostra che nel periodo della sua presenza in politica non si era arricchito come altri gerarchi e viveva a Milano emarginato anche dalla sua famiglia. Nei giorni di fine aprile 1945 mentre in tuta da ginnastica si dirigeva verso un campo di allenamento sportivo non temendo pericoli avendo ottimisticamente la coscienza pulita, fu arrestato da una pattuglia di insorti e dopo una parvenza di processo al Politecnico fu condotto in Piazzale Loreto dove si stava svolgendo la macabra esposizione dei cadaveri dell’ex dittatore e dei suoi collaboratori. Qui pare che gli sia stato imposto di salutare il corpo del suo antico capo e poi una sventagliata di mitra mise fine al suo calvario. Immediatamente dopo il suo cadavere fu appeso per i piedi al famoso traliccio del distributore di benzina accanto alle altre salme. Si era alla fine di un periodo terribile di privazioni e di soprusi e si può comprendere l’esasperazione della folla con reazioni di odio primordiale di cui tralasciamo la descrizione,  ma la vicenda dell’esecuzione di  Achille Starace va al di là di una manifestazione di sadismo psicologico che non fa onore alla pagina bella della guerra di liberazione nazionale e forse per un senso di vergogna tuttora se ne parla così poco.

Riflessioni sull’11 settembre,

L’orrore di quel fatto non ha paragone nella storia moderna per l’entità del numero delle vittime e per il modo con cui alcuni sopravvissuti momentaneamente all’impatto degli aerei contro le torri gemelle, preferirono suicidarsi gettandosi dalle finestre per non cedere alle fiamme…..Solo il lancio delle bombe atomiche su Hiroscima e Nagasachi nel 1945 può avere una parvenza di analogia con quanto avvenuto a New York. Oppure gli interventi delle fortezze volanti americane contro anche le città italiane durante la seconda guerra mondiale possono avere una certa similitudine dal punto di vista delle barbarie cui può indurre una guerra moderna. Non possiamo essere precisi su quali forze aeree alleate primeggiarono nel bombardare le nostre città durante gli anni 1940-45: se fu la R.A.F. inglese o i quadrimotori degli U.S.A. ad abbattere i nostri monumenti, ma bisogna dire che  le atomiche contro i giapponesi riuscirono finalmente a costringere alla resa l’Impero del Sol Levante e che i bombardamenti alleati colpirono le città italiane e tedesche cioè delle Nazioni che avevano causato la guerra, iniziando a colpire incivilmente le città inglesi come Coventry o Londra dove le micidiali V1 e V2 provocarono distruzioni e migliaia di vittime, mentre le metropoli americane  non subirono alcun attacco a causa delle distanze dalle basi di lancio degli ordigni: con i fatti dell’11 settembre 2001 anche gli americani hanno constatato cosa vuol dire subire ingiustamente un attacco in casa propria. C’è chi cita con indignazione l’alto numero di vittime civili causate dal bombardamento di Dresda, il capoluogo della Sassonia in Germania nel febbraio del 1945 ma non dice che quelle stesse popolazioni erano i fedelissimi di Hitler cioè di colui che aveva istituito i lager dove venivano sterminate migliaia di persone solo per motivi razziali, con un consenso popolare totale e assoluto. Quello stesso Hitler che fu costretto a suicidarsi perché nessuno dei suoi sudditi lo giudicò colpevole e quindi meritevole di una pallottola, cosa che invece sono abili nel fare altri popoli che quando le cose vanno male sanno ammazzare gli ex capi che avevano osannato fino a poco prima…..Tornando ai fatti dell’11 settembre 2001, in Italia dove l’enfasi domina sovente le azioni degli uomini, in diverse città vengono dedicate strade alle vittime di quella strage, povere vittime incolpevoli come i morti dei bombardamenti alleati come i piccoli martiri di Gorla, ai quali non mi risulta che nessuna città inglese o statunitense  abbia intitolato vie o piazze.. Capisco di stare sostenendo tesi contraddittorie, ma voglio per lo meno evidenziare un fatto e cioè che le vittime civili di attentati o di fatti di guerra sono sempre meritevoli di pietà, siano i fedeli nazisti abitanti di Dresda che i cittadini americani, mentre chi provoca quei fatti delittuosi merita soltanto il biasimo di chi si proclama democratico.

Regine Sabaude

Fra tutte le Regine consorti di Re di Casa Savoia forse la più sconosciuta quella di cui si sono occupati di meno gli storici è la Regina Polissena, moglie di Carlo Emanuele III, secondo sovrano della Sardegna dopo che l’isola è passata sotto il dominio della Dinastia, consentendo appunto ai Savoia di vantarsi del titolo di Re. Eppure Polissena, anche se ha avuto una vita senza scosse né particolari traumi politici, è stata una persona degna della massima stima e ammirazione, così come la gran parte delle altre consorti di Re Sabaudi. Ella ci appare in tutto il suo splendore regale nel magnifico ritratto dipinto da una celebre artista e cioè la Maria Giovanna Battista Clementi detta la Clementina, un olio su tela di cm. 165 x 110 che fa bella mostra di se nella Palazzina di Stupinigi a Nichelino. Nel ritratto appare seduta, indossa un ricco vestito e magnifici gioielli, presenta un viso dai lineamenti regolari e un’espressione serena se non addirittura lieta mentre accarezza due dei suoi bambini, tra cui colui che dopo il padre salirà al trono col nome di Vittorio Amedeo III. Polissena era tedesca di nascita, apparteneva alla casa dei Principi d’Assia-Rheinfels-Rotenburg ed era legata da parentela con decine di altre famiglie germaniche  che, come la sua costellavano quello che era ancora definito in quella prima metà del 1700 il Sacro Romano Impero. Con uno sguardo a ciò che accadde dopo di lei possiamo ricordare che con i suoi nipoti (figli del suo figlio sopra citato) i quali vissero e regnarono nel periodo Napoleonico e poi della Restaurazione, si estinse il ramo primogenito della famiglia a cui succedette il ramo cadetto di Savoia Carignano con Carlo Alberto. Una sorella di Polissena, di nome Cristina e quindi come lei Principessa d’Assia, fece il suo stesso percorso dalla Germania a Torino quale consorte dei Principe Luigi Vittorio di Savoia Carignano ed è la bis nonna proprio di Carlo Alberto. Entrambe le sorelle furono quindi felicemente prolifiche e proprio tra le figlie di Cristina ricordiamo l’infelice Maria Teresa Principessa di Lamballe, maritata in Francia al Principe di quel titolo, parente della famiglia Reale, e dopo la vedovanza e grande amica della Regina Maria Antonietta, fu travolta nel turbine della Rivoluzione Francese e massacrata nelle stragi di settembre del 1792. Nel 1925 nel Castello di Racconigi si celebrava un altro matrimonio tra gli Assia e i Savoia quello tra Mafalda, la secondogenita del Re Vittorio Emanuele III e il Principe Filippo d’Assia Cassel. Quindi si riannodava un legame che aveva radici lontane. Sebbene terminata in modo tragico questa unione fu serena e rallegrata da ben quattro figli. Ricordiamo che la salma della Principessa Mafalda, riesumata dal campo di Bukenwald riposa in Germania nel mausoleo della Casa d’Assia.

Tentativi di sfascio

A Filettino, un ridente paesello in provincia di Frosinone, il sindaco appoggiato dalla giunta e pare da tutta la popolazione, avrebbe deciso di proclamare l’indipendenza dal resto dell’Italia e di assumere la forma di Principato indipendente, in analogia, modestia a parte, del Principato di Monaco perla della Costa Azzurra. Questo per protestare contro le angherie di una località confinante beneficiaria delle risorse di Filettino nonché per il rilancio turistico ed economico che deriverebbe dal frastuono mediatico di un fatto simile, infine ricordando che nel lontano passato alcune famiglie della nobiltà avevano ostentato il medesimo titolo. L’offerta della corona sarebbe stata fatta nientemeno che al Principe Emanuele Filiberto di Savoia il quale pare che abbia avuto il buon senso, ringraziando, di rifiutare. Effettivamente dalle località di Piemonte e di Venezia di cui porta i titoli principeschi a Filettino sarebbe proprio stato un salto all’indietro, senza considerare altro… D’altra parte con tanti personaggi circolanti in cerca di fama a buon prezzo non si esclude che presto altri nomi saliranno alle cronache per la stessa offerta. Il senatore Umberto Bossi, ministro in carica della Repubblica, ha a sua volta rispolverato il progetto di indipendenza della cosiddetta Padania, ventilando il ricorso a un referendum tra le popolazioni del Nord, stanche di essere dissanguate, a suo dire, dalle regioni del Meridione d’Italia. E questo alla faccia di Giuseppe Garibaldi nel 150 esimo anniversario dell’Unità del Paese. “La Monarchia ci unisce, la Repubblica ci dividerebbe” fu la frase profetica che accomunò al trono Sabaudo nel Risorgimento alcuni politici di buon senso, ma di questo non vollero tener presente coloro che nel 1946 si batterono ideologicamente per sbarazzarsi dei Savoia che avevano cementato la nuova Nazione. Adesso i nodi vengono al pettine: una crisi seria minaccia il Paese, l’economia è sotto un quotidiano esame, e quindi riprendono fiato pirotecniche teorie di suddivisione di zone ricche e trainanti e zone povere sfruttatrici e di cui è opportuno sbarazzarsi. L’amore della Patria, il sacrificio dei Martiri, la lingua l’arte e la letteratura comune dal Piemonte alle Isole tutto ciarpame superfluo e improduttivo di cui non tenere conto: sono stati messi nel Museo della Storia la Corona e il Trono, simboli dell’Unità, mettiamo al Museo anche l’Unità stessa! Questi sono i programmi politici di alcuni cittadini nell’anno 2011.

martedì 6 settembre 2011

Toponomastica Milanese

Milano ha dedicato diverse delle sue strade a personaggi storici che sono stati protagonisti delle sue vicende, dato però che i cognomi sono sovente i medesimi è stato necessario differenziare i nominativi con soprannomi anche pittoreschi: Prendiamo per esempio viale Caterina da Forlì che dovrebbe chiamarsi, per rispettare l’anagrafe, Caterina Sforza, si è preferito citare la città di Forlì perché c’è già una strada dedicata a Francesco Sforza, evitando così confusioni nella ricerca delle varie ubicazioni.  Forlì, assieme a Imola, costituiva il feudo dotale di Caterina quando andò sposa a Girolamo Riario, nipote del Papa Sisto IV. Si è trattato di una donna dal carattere forte e di grande temperamento, figlia naturale del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e della sua amante Lucrezia Landriani: nacquero diversi figli dalle nozze col Riario e i suoi discendenti, tuttora esistenti sono i Duchi Riario-Sforza. Dopo l’uccisione del marito ebbe una bollente love-story con Giacomo de Feo, con cui contrasse un secondo matrimonio ma che fu anch’egli ammazzato: terze nozze con Giovanni de’Medici e nascita del figlio anche lui Giovanni, noto alla storia come Giovanni dalle Bande Nere, celebre condottiero dalle insegne a strisce nere (…simili all’emblema della Juventus?). Milano ha dedicato una piazza a  Giovanni dalle Bande Nere, il cui figlio, nato da Maria Salviati, fu Cosimo I, primo Granduca di Toscana della Casa Medici, dopo che i suoi antenati (come Lorenzo il magnifico) erano stati solo Signori di Firenze. Da Cosimo I e dalla sua bellissima prima moglie Eleonora Alvarez de Toledo ( la cui madre era una de Fonseca Pimentel, altro casato presente nella toponomastica milanese, per via della dominazione spagnola dell’epoca) discendono i Borbone di Francia (nozze di Maria de’Medici con Enrico IV) ,e dalla seconda sposa di Cosimo I, Camilla Martelli, tramite la figlia Virginia, derivano gli Estensi di Modena e Reggio che, legati genealogicamente ai Farnese di Parma sono gli antenati dei Borbone di Spagna (nozze di Elisabetta Farnese col Re di Spagna Filippo V) fino all’attuale Re di Spagna Juan Carlos…Ebbene si, il popolarissimo sovrano spagnolo è nato, come molti sanno, a Roma ma ha diversi antenati Milanesi, titolari, come abbiamo visto di alcune strade della città ambrosiana. Un’altra bella arteria di Milano è stata dedicata a Bianca Maria, l’ultima dei Visconti, figlia del Duca Filippo Maria e della sua amante Agnese del Maino, e sposa di Francesco Sforza, genitori a loro volta del sopra citato Galeazzo Maria Sforza.  Viale Gian Galeazzo ricorda poi quello che forse è il più illustre dei Visconti, il primo Duca del Casato durante il cui dominio fu edificato il duomo di Milano, uno dei più ammirati Templi cristiani esistenti al mondo. Concludiamo questa carrellata per le strade milanesi con Lodovico il Moro, anche lui intestatario di una via: era anche lui figlio di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti e visse in un periodo molto difficile cui cercò di far fronte anche con metodi discutibili, ma fu costretto a soccombere a francesi e spagnoli più forti di lui. Con il debole governo di suoi due figli cessò il potere degli Sforza a Milano e iniziò pure il vassallaggio dell’Italia agli stranieri. Ricordiamo infine il bel viale Beatrice d’Este, dedicato alla moglie del suddetto Lodovico il Moro.

Il borsello

Non ho mai posseduto un borsello nemmeno quando la moda imperante imponeva a ogni uomo, non dico elegante, ma correttamente vestito, di completare il suo abbigliamento con quell’oggetto. L’avevo sempre ritenuto superfluo per le poche cose di mia necessità, considerando che le tasche sia della giacca che per almeno dieci mesi all’anno sono solito indossare, sia dei pantaloni erano sufficienti appunto per le mie esigenze. Inoltre devo essere sincero mi infastidiva il fatto che “la borsetta” era un aggeggio troppo esplicitamente femminile, e quindi di andare in giro con tale accessorio tra le mani, mi avrebbe certamente imbarazzato. Bene, ho dovuto ricredermi. Oltre al fatto che recentemente il borsello ha avuto un rilancio nella moda maschile con modelli sportivi da portare con fascia a tracolla, e tenuto presente che il cosiddetto “marsupio” in giro vita mi piaceva ancora meno per il fastidio di tale rigonfiamento sotto lo stomaco, quindi ho ceduto e mi sono munito anche io di un borsello. Ma il motivo determinante è stato il furto che ho subìto del portafogli che mi è stato abilmente asportato dalla tasca posteriore dei pantaloni e da cui una parte sporgeva leggermente offrendosi alla vista del manigoldo, per il fatto che la temperatura africana dell’agosto 2011 mi ha indotto a circolare senza la giacca. Mi sono munito di un borsello di media dimensione, piuttosto piatto, di colore nero e con tracolla pure nera, decisamente sportivo  e che mi consente di esibirlo con disinvoltura. Dicono che non tutto il male viene per nuocere, nel mio caso per consolarmi del danno subito, mi dico che quel che mi è capitato mi ha fatto superare il complesso del borsello, adeguandomi alla maggioranza degli altri uomini che già lo portavano. Comunque la prossima volta, per rubarmi il portafogli, dovranno rubarmi anche il borsello.